L’Appennino chiede aiuto e si interroga sul futuro della sua viticoltura: le opportunità da cogliere e il continuo rischio di abbandono
Si fa presto a dire “montagna“. La montagna può essere amata e odiata, subìta, vissuta quotidianamente o per una settimana all’anno. Triste è l’abbandono che, a seguito dello spopolamento migratorio, l’ha contraddistinta.
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Enorme è il gap tra il concetto di vivere la montagna nel nord Italia e il resto del Paese; si pensi a tutta la catena appenninica e al suo progressivo abbandono, non solo agricolo. Vero è – da sottolineare – che la montagna non può essere considerata un parco giochi dei turisti della domenica o dei cittadini con smanie naturalistiche che hanno la stessa durata di una buona bottiglia sulla mia tavola.
Situazione, confronto e proposte
Vivere quindi la montagna: e perché no, viverla anche di viticoltura, una risorsa territoriale e l’argomento che qui ci interessa particolarmente perché oggetto del convegno che si è tenuto a Cutigliano (PT) pochi giorni fa presso lo storico Palazzo dei Capitani.
Fortemente voluto da Gregorio Ceccarelli, titolare di Terre dei Lontani, e organizzato da Marina Lauri per GAL MontagnAppennino, ha visto l’attenta partecipazione di un pubblico numeroso e eterogeneo, interessato dagli importanti interventi di ANCI, Carlo Chiostri per l’Accademia dei Georgofili, Paolo Storchi di CREA, Alessio Cavicchi per UNIPI, CERVIM, Marco Vieri per UNIFI, il Direttore Generale del MASAF Oreste Gerini, CIA, Coldiretti, PierPaolo Lolieri della Federazione Toscana di Strade del Vino dell’Olio dei Colori e dei Sapori, e ovviamente Marcello Danti Sindaco del Comune Accorpato di Cutigliano-Abetone.
L’azienda di Gregorio è a Pian degli Ontani (PT), dove circa una decina di anni fa ha impiantato la prima vigna a 1100 m slm; si avvale della collaborazione di Massimo Motroni, che dopo aver conosciuto il suo sogno visionario ebbe l’intuizione di assecondarlo e supportarlo.
Montana ed eroica
Quando si parla di viticoltura di montagna si pensa subito alla “viticoltura “eroica“: i requisiti per essere considerata tale sono: altitudine minima di 500 m slm, impianti su terrazzamenti o gradoni, pendenza superiore al 30%, coltivazioni in piccole isole (infatti le difficoltà dei pendii e dei problemi climatici si hanno anche a altitudini più basse), ma i viticoltori dicono che gli eroi sono quelli che hanno fatto le guerre e probabilmente hanno ragione. Concentrandoci volutamente per oggi solo sulla Toscana, Paolo Storchi di CREA ha affermato che in regione sono circa 1250 gli ettari vitati sopra i 500 m slm (il 2,07%).
Certo è che gli innegabili cambiamenti climatici in corso favoriscono lo spostamento verso l’alto, anche se gli aspetti negativi delle altitudini non sono pochi:
- difficoltà del ciclo vegetativo,
- agenti atmosferici avversi,
- maggior radiazione UV-B che si traduce in maggior accumulo di resveratrolo e quercetina nelle uve;
- incursioni degli animali selvatici, preziosi per la biodiversità ma golosi dei frutti,
- difficoltà a rintracciare manodopera specializzata o almeno adeguatamente formata, necessariamente manuale, che abbia volontà di lavorare in situazioni così impervie,
- complicazioni dovute alla reperibilità dei terreni da coltivare (apro qui una parentesi di necessaria spiegazione: nelle zone rurali abbandonate è frequente che piccoli appezzamenti di terreni, anticamente di un unico proprietario, siano suddivisi tra numerosi eredi spesso difficilmente rintracciabili e di più generazioni che non hanno mai provveduto alle debite successioni, rendendo quindi quasi impossibile procedere al loro affitto o al loro acquisto. Uno dei viticoltori presenti all’evento ha dichiarato di essere stato fortunato ad aver potuto sottoscrivere ben 103 diversi contratti di locazione per ampliare la sua proprietà e arrivare così a 2ha)
- non ultima: la capacità di far fronte alla burocrazia che spesso impedisce la giusta destinazione d’uso a edifici rurali abbandonati e prevede la figura del contadino come imprenditore a tutti gli effetti.
Un altro punto da tenere in considerazione è che le altitudini e le pendenze canoniche della viticoltura di montagna andrebbero considerate in ogni singola situazione: se si pensa per esempio alle vigne a picco sul mare presenti in Liguria, queste non possono essere certo definite “montane“, ma sicuramente estreme e senza dubbio “eroiche”; oppure a zone di bassa quota come la Valle del Serchio dove le pendenze, i terrazzamenti e gli agenti atmosferici sono simili alla montagna ma non le altitudini.
Diversa è, per esempio, la situazione della Valtellina, zona sicuramente posizionata a Nord ma con vigne ad altitudini che si aggirano intorno ai 450-500 m slm, o della Valle d’Aosta con le sue terrazze e pergole situate a 1000 metri che hanno però visto uno sviluppo vitivinicolo molto più importante e conseguentemente un minor abbandono delle aree vivibili. Cose che cambiano in Abruzzo e Molise dove la situazione è tristemente simile alla Toscana. Altro ancora è il contesto etneo: la Sicilia, nonostante l’ingente emigrazione del passato, mai ha abbandonato la viticoltura riuscendo a far sopravvivere piante molto datate.
È indispensabile l’interazione tra istituzioni, viticoltori e popolazione, nonché l’esplicazione delle criticità e delle finalità di chi vuole vivere e far vivere la montagna, coinvolgere la popolazione locale, spiegare alla comunità interessata dai progetti proposti gli obiettivi finali ovvero la salvaguardia del patrimonio umano e agroforestale, limitando così anche i rischi di esondazioni e frane.
Quale futuro?
In tutto ciò può essere di aiuto l’utilizzo di macchinari e robotica, sui quali sta ininterrottamente studiando UNIFI, come ci illustra Marco Vieri dell’Accademia dei Georgofili, e l’impiego e la coltivazione dei vitigni PIWI [1], che sono i protagonisti di un acceso dibattito in corso tra sostenitori, detrattori e autorità competenti.
Il trend attuale del mondo del vino è parlare di vigneti resilienti, ovvero che si possano adeguare alle difficoltà grazie all’intervento dell’uomo. Secondo Angelo Bertacchini, agronomo e enologo nonché titolare dell’azienda I Gigli di Borgo a Mozzano (LU), i PIWI sono sicuramente meno suscettibili ma non invulnerabili a problemi come oidio e peronospora, quindi i trattamenti benché ridotti non sarebbero esclusi del tutto, almeno in montagna.
Ovviamente si perderebbe la peculiarità del rapporto tradizione/territorio esistente finora, infatti probabilmente saranno una risorsa nelle zone già largamente impiantate per produrre grandi quantità, per es. in Pianura Padana. Tuttavia potrebbero essere un’occasione per la viticoltura di montagna laddove il vigneto possa essere una risorsa economica come volano di attaccamento al territorio. Ciò sarebbe possibile però solo con il supporto delle autorità, in questo caso della Regione Toscana e del Ministero dell’Agricoltura, che verrebbe interpretato come mossa politica incoraggiante per le zone montane.
Sempre secondo Bertacchini, si dovrebbe però incentivare anche la cura e la conservazione di antichi e più o meno rari vitigni autoctoni, avvalendosi dell’aiuto della tecnologia e della ricerca scientifica. Come sempre non c’è mai un assoluto, ma l’auspicio dell’uso del buonsenso e della contestualizzazione. Per adesso i vitigni più coltivati nelle vigne montane sono soprattutto vitigni alloctoni come Pinot Nero, Riesling, Sauvignon Blanc, anche perché la Toscana non ha ancora autorizzato la coltivazione dei vitigni PIWI.
Non è detto che il futuro (molto futuro) veda la creazione di un marchio, una sorta di DOC della Montagna – in fondo, chi sente la necessità di ulteriori regole, disciplinari e rigidità burocratiche? – : è semmai auspicabile la nascita di un nuovo distretto viticolo di eccellenza che possa promuovere l’espressività di un territorio che è fortuitamente allineato alla tendenza dei vini facili da affrontare, con livelli alcolici non esagerati e freschezza spiccata.
Inoltre, non sono da sottovalutare le potenzialità di apertura verso i mercati esteri: Cina, Giappone, USA sono attratti non solo dalle grandi etichette ma anche dai piccoli marchi proprio per l’esclusività che induce l’acquisto “d’élite”. Se viene da chiedersi: viste tutte queste difficoltà, a che scopo supportare la viticoltura di montagna?
Una delle risposte può essere che l’economia di un’azienda agricola “estrema” viene senza dubbio aiutata dalla policoltura che non sfrutti il territorio ma che supporti la biodiversità, quindi sì a viti, grani antichi, castagne, ecc., sistema da non confondere con l’agricoltura promiscua del passato che mirava alla quantità e non esaltava la qualità di nessun prodotto, né aveva l’attenzione moderna all’ambiente.
A tale proposito in questi giorni è inevitabile pensare alle proteste degli agricoltori di tutta Europa contro le norme comunitarie che, nonostante l’encomiabile scopo di ridurre coltivazioni e allevamenti altamente inquinanti, inevitabilmente penalizzano, almeno allo stato attuale delle cose, i piccoli produttori favorendo la grande industria agroalimentare (è chiaro che questo argomento sarebbe molto più vasto e tratterebbe anche questioni di politica internazionale che non trovano spazio in questa sede).
In montagna il trend è esattamente l’opposto, ovvero supportare chi intende salvaguardare e promuovere le piccole produzioni nell’ambito di uno stile di vita meno consumistico e più a misura d’uomo. Come è evidente, l’argomento di partenza affronta un numero considerevole di argomenti collaterali, ognuno degno di essere sviluppato in profondità.
In tutto ciò ammetto di essermi sentita particolarmente coinvolta poiché io stessa ho fatto una scelta di vita simile, ma soprattutto è stata stimolata la mia incorreggibile curiosità. Ho quindi visitato alcune delle aziende toscane interessate, che avrò piacere di raccontarvi nei prossimi episodi. Stay tuned!
Note
[1] PIWI: acronimo della parola tedesca “pilzwiderstandfähig” ovvero: vitigni resistenti ai funghi. Rappresentano una categoria di vitigni non OMG, ottenuti da incroci tra vitigni già esistenti selezionando le loro caratteristiche genetiche in base alla resistenza ai vari problemi della vite come malattie, parassiti, bisogno idrico, ecc. per fronteggiare, tra l’altro, l’eccessivo uso di prodotti chimici e l’incombenza dei cambiamenti climatici in corso.
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