Dopo la raccolta, la piña dell’agave passa alla lavorazione. La cottura e la fase prefermentativa. I segreti dei palenque.

¡ARRIBA EL MEZCAL!


Con Il nostro “Affabulatore alcolico” Mauro Bonutti proseguiamo la conoscenza dell’antica storia dal sapore contemporaneo del Mezcal.


[si legge, più o meno, in: 6 minuti]

Il distillato più rappresentativo del Messico e più antico delle Americhe vive di leggende remote che si ripropongono ancor oggi nell’attività di tanti produttori artigianali.

El maguey (per noi l’agave) è il prezioso vegetale da cui tutto si genera: ma le interpretazioni di chi lo lavora per trasformarlo in bevanda alcolica cambiano sulla base della varietà, dello stile produttivo e della tradizione ispiratrice.

Siamo arrivati al sesto contributo, dopo che nell’ultimo ci eravamo lasciati alla “jima“, con le pigne pronte per essere lavorate ed entrare nel vero processo di trasformazione in distillato.

Prima di tutto, serve però cottura e un assaggio finale… Buona lettura.

[la redazione]

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courtesy: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal

Dalla cottura dell’agave alla prefermentazione

Il mezcal è sempre stato il prodotto del popolo messicano, “figlio” del popolo. E proprio come un figlio è sempre stato amato, anche quando è diventato fuorilegge.

I conquistadores spagnoli volevano ritorni monetari dalle loro “colonie”, anche sul consumo obbligato del loro vino e brandy. Oppure proibizione/tassazione esagerata per le altre eventuali produzioni alcoliche indipendenti, così come risultava essere il Mezcal.

Se i controlli potevano essere possibili nelle grandi città del nord, man mano che si scendeva verso sud, verso terreni sempre più isolati, selvaggi, caldi, sabbiosi e aridi o freddi e montuosi, inerpicati in mezzo a fitte boscaglie, la possibilità di “nascondersi” aumentava in modo esponenziale.

Questo gioco a nascondino nasce dal fatto che la produzione del Mezcal è sempre stata semplice, artigianale, con strumenti ridotti all’essenziale, lo stretto indispensabile. Tutto era mobile, camaleontico, facilmente trasportabile, per praticità ma anche per esser fatto facilmente sparire e ricomparire in un altro luogo poco lontano.

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courtesy: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal

Non era ancora tempo di coltivazioni bisognava correre dietro alle agavi, cercarle, spostarsi dove queste crescevano spontanee e ingegnarsi per avere facilmente a portata di mano tutto quello che serviva. A parte qualche pentolone, che magari si riutilizzava anche per cucinare, bastava qualche piccolo tronco scavato per completare l’alambicco, l’acqua di qualche piccolo pozzo, legna per il fuoco. L’ingegno del popolo messicano, la sua inventiva, contribuiva a tutto il resto.

Il bello del Mezcal è che ha sempre sfruttato la creatività, la improvvisazione dovuta a strumentazioni fatiscenti, da adattare sul momento, e di questo ha fatto la sua forza e la sua tradizione. Un lavoro duro, faticoso, perpetrato all’interno delle singole famiglie perché il Mezcal è “cosa sacra degli dei antichi”, medicina divina per la salute della gente.

Ma il Mezcal alla fine è anche gioia, lavoro da farsi sotto il cielo stellato del Messico, a ritmo di musica, come tutte le altre piccole attività quotidiane, che fanno sì che la vita scorra imperturbabile, continua, giorno dopo giorno.

Una “espressione del popolo“, così come descrive perfettamente il nostro Francesco De Gregori nella sua “Sotto le stelle del Messico a trapanar“, che terremo in sottofondo come nostra colonna sonora, in questo parte di viaggio che racconta le basi di “come si crea il Mezcal”.

Sotto le stelle del Messico a trapanar
Nelle miniere di petrolio a dimenticar
E nelle sere quando scende la sera andar
Sotto le stelle del Messico a trabajàr
E quando arrabbiano i diavoli a spaventar
E quando tornano gli angeli a ringraziar
E quando suona l’armonica a festeggiar
E quando arriva domenica a lavorar
Sotto le stelle del Messico a ritornar
E quando arriva le nuvole a riparar
E quando piove nel fango a trasumanar
Sotto le stelle del Messico a naufragar


Si riparte, il viaggio continua. Nella tappa precedente ci eravamo fermati alle nostre agavi raccolte (a fatica)  e trasportate (più o meno a fatica) in uno dei tanti posti dove verranno trasformate in prezioso nettare inebriante.

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courtesy: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal

La expresión del pueblo

Abbiamo detto “tanti posti”: dimentichiamoci infatti grandi capannoni, grossi stabilimenti. Il mezcal si fa (soprattutto) in famiglia, in casa, in piccole costruzioni più o meno fatiscenti che pullulano disperse su e giù per boschi e colline o isolate in mezzo a pianure e altipiani. Normalmente lontano da centri abitati, un po’ per il retaggio storico del “nascondersi al fisco” un po’ per semplificare ed accorciare i trasporti della materia prima.

Nella maggior parte dei casi abbiamo semplicemente dei piccoli rifugi coperti per proteggere la fermentazione e gli alambicchi. Tutto estremamente rustico, naturale, in mezzo alla polvere che il vento continua ad alzare ripetutamente, tanto che da fuori non riesci a comprendere come da tutto questo si possa ricavare un distillato così nobile. Diamo loro il nome che gli spetta: palenque, che significa “radura”, riparo.

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courtesy: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal

Oggi alcuni di questi sono cresciuti, sono diventati più stabili, più puliti, più efficienti, più produttivi. Se però vogliamo trovare la vera anima del Mezcal, quella più autentica, quella che non viene esportata in giro per il mondo, bisogna attrezzarsi per percorrere chilometri e chilometri di improbabili strade sterrate e raggiungere piccoli posti sperduti dove il tempo si è fermato, ma dove la abilità dell’uomo trova modo di esprimersi.

Il bello del mezcal è proprio questa sua creatività: un insieme di tante decisioni, tante variabili, alcune di grossa entità altre molto più piccole, spesso diverse per ogni maestro mezcalero. Un’arte che deve far fronte a tutte le variabili che capitano davanti.

A cominciare dalla catasta di più o meno grosse “pigne” da cui bisogna partire. E qui cominciano i problemi: l’agave è si fatta da tanti zuccheri, ma tutti zuccheri complessi, lunghe catene di atomi inattaccabili dal più forte lievito che ci possa essere. E niente cibo da dare in pasto ai lieviti significa nessuna possibilità di fermentazione alcolica e nessuna produzione di alcool.

Tanto per la cronaca lo zucchero che compone la pigna è la inulina, un polisaccaride che normalmente funge da riserva energetica per la pianta. La troviamo molto spesso in commercio sotto forma di medicinale alternativo in quanto trattasi un prebiotico che sostiene la crescita della flora microbica intestinale favorendo la digestione, regolando le funzionalità intestinali e aiutando a contenere i livelli di colesterolo. Quasi quasi un peccato provare a spezzarla perdendo le sue caratteristiche base e trasformandola in tanto semplice fruttosio. Ma qui il nostro scopo è produrre del buon mezcal e bisogna attrezzarsi.

Nel corso del tempo l’esperienza ha insegnato che la scomposizione di queste catene zuccherine complesse si ottiene mediante il riscaldamento, la cottura (stesso principio usato a tutte altre latitudini facendo bollire le patate per sciogliere l’amido e poter produrre vodka).

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courtesy: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal

C’è cottura e cottura…

E dicendo cottura si innescano tutte le prime diversificazioni di processo. Abbiamo a che fare con grandi quantità di materia prima, fino a qualche tonnellata! Non ci sono pentoloni che possano agevolmente contenere il tutto. Dobbiamo banalmente ricondurci all’utilizzo del fuoco. Ecco allora che l’ingegno ha previsto la creazione di grandi buche scavate nel terreno, di varia larghezza, fino a una decina di metri.

Decisamente profonde, anche tre o quattro metri, perché in basso bisogna accendere la fonte di calore, creando uno strato di carboni ardenti di legna sopra il quale depositare il nostro ammasso di agavi e accendere il fuoco. Viene creato in pratica un grosso forno artigianale dove otterremo un morbido cibo dolce e caramellato (e anche affumicato).

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courtesy: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal

A partire da questo progetto di forno scattano le inventive e le diversificazioni:

  • C’è chi pone sopra il fuoco una serie di lastroni di pietra refrattaria per evitare il contatto diretto con il fuoco e c’è chi utilizza terriccio come separatore molto più leggero.
  • C’è chi in riferimento a leggende ancestrali non vuole assolutamente nessuna separazione tra calore e agavi perché la natura prevede un legame non scindibile tra la pianta e la terra per cui non devono esserci separazioni di mezzo.
  • C’è chi nel corso del tempo comincia ad evolvere verso la modernità creando proprio una camera di separazione tra il fuoco sottostante e la materia prima, riducendo quindi il calore diretto.

Ci sono poi le scelte relative alla copertura di questo forno. Per mantenere il calore all’interno, la catasta di pigne viene normalmente coperta anche perché la cottura può prolungarsi per più giorni. Si stende di solito uno strato di fibra legnose residuanti da precedenti cotture miste a terra e si isola coprendo con grandi teloni bloccati da pietre e sabbia.

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courtesy: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal

Tante diverse scelte con tanti diversi risultati: tempi e differenti gradi di cottura, di bruciatura e di affumicatura fanno sì che, da piante simili, a pochi chilometri di distanza si possano ottenere risultati decisamente eterogenei.

Ma la storia, le leggende e le tradizioni, devono fare i conti con il progresso, con l’evoluzione, la modernità e la ricerca di maggiore efficienza (a discapito, probabilmente, della qualità): all’aumentare dei numeri c’è bisogno di qualcos’altro e “il concetto di forno” pian piano si perfeziona.

Man mano che passiamo dal piccolo produttore alle aziende più grandi le procedure si adeguano. All’inizio del XX secolo il primo passaggio -comunque intermedio – fu la costruzione di forni in mattoni (o anche in pietra, di più difficile costruzione), eventualmente rivestiti in ceramica per coibentare.

Grandi camere in muratura, edifici veri e propri, con un grande portellone a chiusura dove poter entrare per deporre tonnellate di agavi. Il riscaldamento avviene tramite vapore, che viene fatto arrivare quasi sempre dal basso verso l’alto.

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courtesy: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal

Anche qui la cottura dura dalle 48 alle 72 ore, l’effetto bruciato viene ovviamente a mancare (o quasi) e il risultato finale sarà sicuramente diverso. Se non altro però siamo in un ambiente chiuso e riparato e indipendente dagli agenti atmosferici. Diciamo che anche i nostri controlli sanitari approverebbero! Rimane comunque ancora una modalità relativamente artigianale, questi grandi forni sono spesso costruiti a mano, mattone dopo mattone.

Quando però comincia a prevalere l’aspetto economico, quando i tempi di lavorazione devono comprimersi, l’efficientamento porta a enormi autoclavi in acciaio, lunghe cisterne che lavorano a pressione, permettendo di portare a termine la cottura in poche ore e ottenendo una materia prima più “bollita” che arrostita. Effetto “pentola a pressione” vs “lunga cottura alla brace”.

Qui il risultato finale sarà stavolta completamente diverso, soprattutto più uniforme, più standardizzato, non ci sono tutte le possibilità di intervento manuale dei forni interrati, dove i particolari fanno la differenza, la sfumatura. L’industria porta a questo, se conta il numero di litri da produrre, la quantità a discapito della qualità, bisogna fare alcuni scelte, alcuni sacrifici.

Ma non dilunghiamoci in questi discorsi romantici, perché la strada per arrivare al Mezcal nel nostro bicchiere è ancora lunga.

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courtesy: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal

Prefermentazione

Finalmente le nostre “dure” agavi si sono ammorbidite, gli zuccheri si sono semplificati e sono pronti all’uso. O meglio sarebbero pronti. Dobbiamo appena ridurre il tutto a una poltiglia liquida da far fermentare, e anche in questo caso le strade sono diverse.

Il risultato da ottenere è la frantumazione di questi densi ammassi fibrosi, e la storia (il nostro romanticismo) insegna che il metodo più primitivo era quello di mettere una agave per volta in un tronco di legno scavato e cominciare a batterla con con dei bastoni o mazze appuntite, sempre di legno, recuperando il liquido che viene a formarsi sul fondo della concavità del tronco per poi versarlo in contenitori dove far avvenire la fermentazione.

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courtesy: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal

Metodo decisamente arcaico e faticoso, praticamente in disuso – sebbene non del tutto… -, che permette però di avere un controllo puntuale e preciso del livello finale a cui giungere.

Ben più famoso e tuttora molto utilizzato è lo step successivo, il primo grado di automazione, o meglio di intervento non solamente umano, la Tahona, che altro non è che una rudimentale macina pseudo-meccanica. Il tronco di legno viene sostituito da una pavimentazione circolare di pietra dove stendere le nostre agavi, non più una sola per volta ma in base alle dimensione del cerchio. Il mazzuolo per percuotere diventa una grossa e pesante ruota in pietra in grado di schiacciare tutto al suo passaggio, e la forza delle braccia è affidata allo sfruttamento di un povero asinello da soma che fa girare in continuazione questa ruota, agganciata tramite un bastone. Sul fondo circolare si recuperano in tempi più rapidi i liquidi residui per il successivo passaggio verso la fermentazione.

Nel corso del tempo, per prevenire eventuali interventi delle varie associazioni protezione animali, si è passati all’utilizzo di piccoli trattori il continuo girare in tondo probabilmente procura dei bei giramenti di testa al guidatore…

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courtesy: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal

L’industria non ha ovviamente tempo da perdere, per cui nelle grandi aziende le agavi cotte (o come abbiamo visto più propriamente bollite) vengono poste su lunghi rulli trasportatori dove vendono fatte passare tra grosse macine meccaniche che schiacciano tutto senza pietà ottenendo in breve tempo il nostro desiderato succo liquido di partenza per la fermentazione.

La trasformazione in alcol è bene però affrontarla una prossima volta: siamo in Messico, no? Il pomeriggio fa caldo e dopo aver osservato tutta la mattina il nostro asinello che gira in tondo abbiamo bisogno di dedicarci alla nostra “siesta” quotidiana.

Per il lavoro basta così: ci distendiamo, caliamo il sombrero sugli occhi e… come si dice da queste parti: mañana!

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courtesy: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal

Dopo aver sudato per cucinare le nostre agavi e faticato per ricavare una buona quantità di liquido zuccherino da far fermentare, ci pare comunque giusto ritemprare corpo e spirito con un piccolo assaggio.

Un assaggio di Mezcal

Mezcal Nucano Tepextate joven

Abbiamo “esplorato” il mondo basico degli Espadin, che abbiamo capito essere la varietà più diffusa e più facile da lavorare, adesso facciamo qualche variazione sul tema dedicandoci a un prodotto ottenuto a partire dal Maguey Tepextate, più comunemente nota come Agave Marmorata.

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Agave Marmorata (CC0)

E’ una delle piante più longeve, ha un ciclo di vita che va dai 20 ai 35 anni, foglie larghe e contorte, una pigna zuccherina bella grossa e cresce spontaneamente, in condizioni estreme, con le radici che si aggrappano tra le rocce nella zona sud di Oaxaca.

Pianta selvatica quindi, che non si riesce ancora a coltivare. Proprio per questo motivo, a tutela della sua sopravvivenza, è stata rigorosamente regolamentata la sua raccolta.

La sua resistenza e capacità di estrarre nutrimento dal complesso sistema di radici, esalta la profondità dei suoi sapori e permette di ottenere aromi ricchi e complessi, con un profilo decisamente più profondo rispetto ad un espadin, ma allo stesso tempo di approccio meno immediato per il grande pubblico.

Tra le poche bottiglie che arrivano da noi in Italia, per farci assaporare la magia di questa varietà, abbiamo scelto il Mezcal Nucano Tepextate joven, espressione della massima artigianalità del territorio di San Dionisio Ocotepec.

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foto: MB

Tutto è rigorosamente fatto a mano, dalla raccolta alla cottura in forno conico interrato fino alla “spremitura” con la tipica Tahona di pietra trainata da cavallo. Segue una lunga fermentazione in tino in pino e una lenta distillazione con alambicco in rame riscaldato a fuoco diretto di legna.

All’assaggio si sprigionano tutte le note caratteristiche di un mezcal Tepeztate, partendo con un suo sapore fresco e robuste note erbacee, su cui si inseriscono man mano ricchi e robusti aromi speziati e minerali. In bocca arriva anche una decisa nota agrumata non troppo citrica, pompelmo più che limone con una delicata florealità di sottofondo che ingentilisce. Gradazione alcolica di 46,7 abv che non disturbano assolutamente.

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fonte: Consejo Mexicano Regulador de la Calidad del Mezcal mezcal.org
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