Le Marche: qualità umana, cose buone e… Verdicchio
DEMOCRAZIA DEL VINO: L’ENOTRENO
Prosegue il nostro viaggio virtuale e democratico a bordo dell’Enotreno. Un mezzo di trasporto su cui viaggeremo idealmente accanto, come fossimo seduti vicino guardando il paesaggio dal finestrino e informati lungo il percorso dalla maestria comunicativa, schietta, professionale e sincera di Vanni Marchioni.
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Come subito chiarito dall’autore, sarà un viaggio alla portata di tutti, perché il vino è per tutti e di tutti. Un claim che ispira all’uguaglianza di ogni sorta, una frase che accomuna ogni palato, ogni preparazione e ogni cultura. Serve voglia di semplicità, voglia di scoperta, quel giusto mood che vi farà apprezzare questa sintesi di vizi e virtù di ogni regione italiana.
Per ogni regione si racconta un solo vino, magari quello più rappresentativo a livello culturale o magari commerciale. A volte la selezione potrà apparire banale, in altre occasioni esattamente il contrario. Non necessariamente il portabandiera dovrà essere il migliore, il più blasonato. Nondimeno certamente il più caro. L’obiettivo è percepire la terra d’origine nel calice editoriale, il contenitore ideale del contenuto.
Siamo partiti dall’Umbria, il cuore equidistante dell’Italia per arrivare oggi nelle Marche, regione limitrofa e seconda tappa del viaggio. Si respira anche qui l’antica tradizione e dall’Appennino si arriva al mare incontrando usi e dialetti che leggermente variano di città in città, di fermata in fermata.
Dalla costa ci spingeremo verso l’entroterra e incontreremo un’uva davvero rappresentativa di questa regione. Prego signore e signori, salite in carrozza, riparte l’Enotreno!
[ndr]
Nelle Marche
Eccoci sul mare, una regione bellissima che guarda la costa croata oltre la linea dell’orizzonte dell’Adriatico. Mare che influisce eccome sulla produzione di vino, per entrare subito in argomento.
Esco volentieri allo scoperto, sul litorale: parlerò di Verdicchio. Scontato? Scontato era il prezzo di vendita di quel prodotto fresco e beverino che campeggiava baldanzoso sugli scaffali di tutti i supermercati d’Italia già a partire dagli anni ‘60, età dell’oro e del primo consumismo.
Una politica assai azzeccata, certamente, per l’epoca. Oggi, con una rilettura contemporanea e più orientata al “reducetarianesimo” (non me la sono inventata, questa parola, peccato: arte e volontà del ridurre i consumi in funzione della qualità di quello che desideriamo acquistare e degustare), possiamo fare un passo oltre la sinuosa linea della bottiglia. Oppure no.
Oggi sappiamo che il Verdicchio può essere un gran bel vino, è un gran bel vino. Considerato sostanzialmente autoctono, due sono le principali aree di coltivazione: i Castelli di Jesi in provincia di Ancona e il distretto di Matelica, più vicino a Macerata.
Contrariamente alle aspettative, mi soffermerò brevemente e soprattutto su quest’ultimo, dotato a mio avviso di grandissime potenzialità a livello gusto-olfattivo. Caratteristica la sua pietra focaia, mineralità tangibile, gradevole. Anche spumantizzati i Verdicchio di Matelica danno grandi soddisfazioni. Insomma il Verdicchio rappresenta a mio avviso la carta d’identità enologica di una regione meravigliosa, che vive con consapevole distacco il dualismo con la vicina e chiassosa riviera romagnola.
Nelle Marche la qualità, della vita, è un must. Non ci si discosta da una realtà fatta di cose buone, fruibili ogni giorno. Tante cose buone, dai prodotti alle persone.
Ma perché il Verdicchio…?
E allora perché il Verdicchio viene percepito come un vino da grande distribuzione? Perché qualche buontempone ha avuto sacrosanta ragione commerciale, come spesso avviene in questi casi. Ma il caso ha voluto che sia stato più il marketing a fare i numeri, rispetto al prodotto.
Una storia antesignana rispetto alle Air Jordan e assai accomunabile a quella della Coca Cola. Se la bottiglietta di Atlanta richiamava le curve generose di Marylin Monroe, il packaging del Verdicchio non è stato da meno.
Il primo approccio, almeno sulla carta, a una nuova forma di comunicazione. Un’anfora, si voleva riprodurre un’anfora: ottimi dunque i propositi culturali, seppure per la maggioranza degli aventi diritto a beva la bottiglia di Verdicchio era semplicemente diversa, divertente, abbordabile a livello economico. BOOM! Si comincia a vendere. Non solo in Italia, anche altrove. Il Verdicchio principia a viaggiare di continente in continente, dal vecchio al nuovo mondo. Diventa di fatto un prodotto globale.
Ed ecco che succede l’inevitabile: ogni boom va declinato in funzione della destinazione d’uso del prodotto stesso, oggi lo sappiamo bene. Se le buone italiche intenzioni miravano a una contestualizzazione artistica del vino in questione, negli Stati Uniti d’America anche il Verdicchio è passato inesorabilmente dall’imbuto immaginario della bellezza femminile; con la sua tipica forma armonica, e al tempo stesso giunonica, la bottiglia di Verdicchio diventò immediatamente “Sophia Loren“.
La risposta del Belpaese, seppure involontaria, che tramite una propria icona di femminilità dichiarava di non avere niente da invidiare ai corrispettivi parametri d’oltreoceano. Ecco che il dualismo concorrenziale prende forma, è proprio il caso di dire. Ed ecco che il marketing comincia a fare capolino anche nel mondo del vino.
Si comincia a pensare al contenitore, oltre che al contenuto. Oggi la scommessa da piazzare, in generale, è convincere il mondo che le due rette possono convergere, anziché restare parallele.
Le Marche fanno la propria parte.
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