
vino e lussuria di pietro aretino
Dal sogno della madre alle cortigiane di Venezia e quel “melaromatico prosecco”: virtù, vino, spirito e lussuria di Pietro Aretino
SPIRITO NELL’ARTE
Spirito nell’arte ha già suscitato la curiosità di molti lettori. Noi crediamo fortemente che gli insensibili all’arte non sapranno mai apprezzare e comprendere davvero un vino o un distillato se concepiti come frutto della terra che tutto genera e tutto ispira.
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Non lasciatevi ingannare dalle apparenze, quello che qui continuerete a scovare solleticherà il vostro intimo come carezza che soltanto gli animi gentili sapranno percepire e come cultura che sa alimentare la sete degli eletti.
Proseguiamo con lo storico dell’arte Roberto Manescalchi a sancire il legame naturale e imprescindibile fra alcol e arte visiva, fra sacro e profano, fra religioso e sacrilego, fra meravigliosamente bello e indiscutibilmente buono.
[ndr]
Venezia nel cinquecento: artisti, poeti, vino e baldracche sul “Canalasso”

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Nato di umili origini Pietro Aretino… letteralmente “figliol di troia”, si dice un po’ in tutta la Toscana e più precisamente nella sua natia Arezzo, fu anche “bastardo” stante che la meretrice sembra ignorasse chi ne fosse il padre.
Anton Francesco Doni lo dichiarava figlio di un padre «del terzo ordine» e di una madre «pinzochera, nato come dire quasi di monaca et di frate». Ancor più esplicita una anonima biografia circolante ancora lui vivente che recita: «di madre schiavona et putana».
Fin qui le malelingue e i detrattori. Certo è che dalla sua città, ancora adolescente, venne presto cacciato e/o se ne dovette andare a motivo della composizione di un sonetto contro la vendita delle indulgenze. Questo almeno secondo alcuni.
Secondo altri, seppur di umili origini, fu figlio di Luca del Buta, ciabattino, e Margherita Bonci donna di servitù della potente famiglia aretina dei Bacci.
Sia come sia, che lo abbia conosciuto o meno, fu certamente abbandonato dal padre e la cosa procurò in lui l’astio e il rancore che lo spinse a ricusarne il nome e a farsi chiamare Aretino.

Di sé, l’Aretino, ebbe a scrivere:
«Mi dicono ch’io sia figlio di cortigiana; ciò non mi torna male; ma tuttavia ho l’anima di un re. Io vivo libero, mi diverto, e perciò posso chiamarmi felice».
Da Arezzo riparò in Perugia e visse di pittura e rilegando libri, ma la sua natura non tardò a manifestarsi quando un bel giorno dipinse un liuto tra le braccia della Maddalena.
Non sappiamo se per manifesta blasfemia o se nell’intento di “coglionare” uno scarso imbrattatele, dovette comunque trasferirsi in Siena.
Ma qui non vogliamo fare il riassunto della vita dell’Aretino che troverete facilmente in mille biografie.
Qui ci interessa trattare del suo rapporto con lo spirito e il vino.

dal sogno della madre alle cortigiane di Venezia: vino, virtù e vizi di Pietro
Sempre le malelingue dei suoi detrattori (e ne ebbe molti) sostennero che sua madre la notte prima del parto abbia sognato un barile di vino.
Effettivamente l’Aretino grasso e tracagnotto emblema del “botolo ringhioso” di dantesca memoria, malgrado gli sforzi di Tiziano per ritrarlo con imponenza, l’aspetto da caratello un po’ l’aveva… sì: un caratello di fiele e non di vinsanto.

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Da Siena si trasferì a Roma accompagnando il famosissimo e facoltoso banchiere Chigi e le solite malelingue parlano anche di amore greco tra i due e c’è chi mormora (ma questo non è riportato dal “Borzacchini Universale” che, certamente di parte, ascrive la squisita allocuzione al gergo tipico dei livornesi) che il famoso apostrofare un uomo come “uomo da potta e da culo” proprio a detta relazione e all’Aretino si possa ricondurre e riferire.
Passato per Roma, Firenze e Mantova quando già era uno degli uomini più in vista del suo tempo l’Aretino approdò quindi e finalmente a Venezia.
Qui libero da qualsivoglia legame e protetto dal Doge e dal Maggior Consiglio della Repubblica, che ebbe l’accortezza di rispettare nei suoi organi di governo, sprofondò nell’opulenza delle carni delle sue cortigiane.

(già al Fondaco dei Tedeschi nei pressi della prima casa veneziana dell’Aretino, oggi nelle Gallerie dell’Accademia di Venezia)
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Nella sua casa, l’antico Palazzo Bolani Erizzo (non più esistente) lungo il Canal Grande, fra rio di San Grisostomo e rio dei Santi Apostoli nel Sestriere di Cannareggio, iniziò la giostra di convivi e orge di ogni tipo.
Ivi scorrevano fiumi di vino uniti a inenarrabili peccati di gola ma dubito che per San Biagio il nostro sia andato in qualche chiesa a farseli benedire e la lunga mano dell’Inquisizione, più che attiva anche a Venezia, non riuscì mai a colpirlo (il Pontefice lo cercava, non troppo attivamente, per via dei suoi sonetti lussuriosi ispirati ad affreschi perduti di Giulio Romano e per lui illustrati dal principe degli incisori Marcantonio Raimondi, illustratore dell’opera del divino Raffaello).

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Successivamente l’Aretino si sposto nel più sontuoso Palazzo Dandolo, sempre sul “canalasso“, che il denaro non fu mai un problema.

Ne disponeva in quantità considerevole frutto dei proventi del denigratore di professione, pagato per lo più perché tacesse, e del mercante d’arte che vendeva e promuoveva Tiziano il più grande tra i veneziani di tutti i tempi e uno dei più prolifici in assoluto (nella sua scuderia e tra i suoi amici anche il più bravo tra i michelangioleschi Sebastiano del Piombo – che in comune con l’Aretino pare avesse solo la barba – e il suo conterraneo Giorgio Vasari).
quel melaromatico Prosecco…
Perfettamente ambientato nella libertina Venezia dell’epoca, gli eccessi erano la regola e fecero del padrone di casa il più leggendario scostumato che la storia ricordi.
Non le chiamavano… si facevano proprio chiamare “Aretine” (vi sovviene qualcosa?) le donne tutte che frequentavano la sua casa per dovere di lavoro domestico o per piacere ed anche il rio, che della casa costeggiava un fianco, presto divenne il Rio dell’Aretino.

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(notare il Ponte di Rialto ancora in legno ai tempi dell’Aretino)
Dalle finestre il nostro si affacciava sul vecchio ponte di Rialto ed ecco per noi il suo primo accenno, dopo il barile sognato dalla madre, allo “spirito” che ci interessa e nella fattispecie alle vigne o meglio uve:
«mille persone e altrettante gondole su l’hora dei mercati. Le piazze del mio occhio dritto sono le beccarie e la pescaria, e il campo del mancino, il ponte e il fondaco dei Tedeschi, a l’incontro di tutti e due ho il Rialto, calcato d’huomini da faccende. Sonvi le vigne ne i burchi…».
I “burchi”, precisiamo, sono barche fluviali da trasporto a fondo piatto e del resto da una finestra sul Canal Grande il buon Pietro poteva vedere non vigne, ma solo barche cariche di frutta e anche di uva.
La mia manifesta ignoranza, mi dispiace molto, mi impedisce di ragguagliarvi sul vino contenuto nel barile sognato dalla madre e sul tipo di uve che il figlio vedeva transitare (affacciandosi alla finestra).
Ciò che però segue, nel suo racconto descrittivo, credo lasci stupiti e fortemente incuriositi degli appassionati di vino come voi:
«… le caccie e l’uccellagioni nelle botteghe, gli orti nello spazzo, né mi curo di veder rivi, che irrighino prati, quando a l’alba miro l’acqua coperta d’ogni ragion di cosa, che si trova nelle sue stagioni. […] Ed or ora immollarmi voglio il becco con quel melaromatico Prosecco… ».
Il melaromatico Prosecco… possibile? Beh, lo so io e lo saprete voi certamente meglio di me: impossibile immaginare all’epoca, nel XVI° secolo, un vino così come oggi lo vediamo scintillare nel calice nonostante l’omonimia.
Poteva essere quell’uva che chiamiamo oggi Glera ma che fino a dodici anni fa era comunemente conosciuta come Prosecco, oppure no?
L’uva veneta, ormai più famosa al mondo, aveva quindi all’epoca dell’Aretino una fama da melaromatica? Potremmo qui confermarlo?
Beh, in realtà nessuno può confermare né smentire. È ormai conclamata la tesi per cui, già alla fine del quattrocento, il letterato, diplomatico e poi vescovo di Trieste Pietro Bonomo (le sue citazioni sono riportate da tanti, quelle dell’Aretino ritengo un po’ meno…) iniziò, per fini commerciali, a legare il nome di un vitigno antico al Castello di Prosecco che un tempo si ergeva a Trieste su vigneti che arrivavano fino al mare.
Ciononostante l’uva che Aretino chiamava Prosecco potrebbe comunque non essere la stessa che oggi chiamiamo Glera ma piuttosto avere un profilo molto più in comune con un altro vitigno diffuso nella Venezia Giulia…
Perdonatemi la lunghezza di un racconto particolarmente articolato. L’essere prolisso non si addice e non paga certamente sullo spazio digitale nonostante si debba svolgere con doveroso sviluppo strutturato.

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E nel premettervi di non essere granché interessato alla ricostruzione filologica dell’ampelografia (ho invece molto a cuore il farvi comprendere quanto il vino accendesse lo spirito e l’ispirazione dei grandi personaggi), consentitemi di fermarmi al momento qui, senza stancarvi oltre e di raccontarvi, in una prossima seconda parte, qualcosa in più sul melaromatico prosecco del nostro “lussurioso” e sui due vini dell’epoca più di ogni altro graditi all’impareggiabile amante del gusto e del peccato Pietro Aretino.
Leggi “Vino e lussuria di Pietro Aretino” (2^ parte)
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