
chianti: sarò come tu mi vuoi…
Nuova modifica al disciplinare, meno Sangiovese e il rischio di un vino senza anima. Chianti, ma dove stai andando?
Sono quasi 90 anni che si parla di Chianti, nel bene e nel male.
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Tutto è inizato nel luglio 1932, in piena epoca fascista, quando un decreto interministeriale sancì la dizione “Classico” per la zona più antica (il Chianti inteso come territorio storico) e di conseguenza allargò la zona di produzione a buona parte della Toscana.

Solo nel 1996 Il Chianti Classico divenne definitivamente una Denominazione a sé stante distinta dal Chianti. Ma la confusione specialmente all’estero era ormai cosa fatta.
Concedemi una riflessione scevra da interessi e che difficilmente può essere tacciata di non oggettività: se da una parte il Consorzio di Tutela del Chianti Classico ha puntato (nero su bianco) sempre di più verso l’alta qualità e il ferreo legame al territorio con scelte più o meno condivisibili (es: eliminazione dal disciplinare dei tradizionali vitigni a bacca bianca, introduzione della Gran Selezione, aumento della percentuale minima di Sangiovese al 90% nella GS con ipotetico futuro monovarietale), dall’altra la strada intrapresa pare sia stata decisamente diversa e i recentissimi sviluppi ne sono una inconfutabile testimonianza.

Il primo passo è stata la modifica del grado zuccherino massimo che è stato portato a ben 9 g/l. Il motivo, come viene scritto nel disciplinare, è che “Questa modifica viene incontro alle esigenze dei produttori ed ai gusti dei consumatori finali”.
Dai comunicati stampa dell’epoca si evince poi la finalità: modifica al disciplinare con «… un nuovo limite zuccherino a partire dalla vendemmia 2019-2020 che permetterà alle aziende di adeguarsi alle normative Ue e produrre vini di alta qualità e allo stesso tempo in grado di venire maggiormente incontro ai gusti dei mercati stranieri, soprattutto statunitensi, sudamericani e orientali».

Prendiamo quindi nota che se un mercato esige un vino abboccato il Consorzio del Chianti lo accontenta, l’importante è vendere più vino possibile.
Questo avveniva a fine luglio 2019, ok c’è stato il Covid e sembrano passati secoli, ma in realtà si parla di poco meno di 3 anni fa.

Pochi giorni fa altra modifica, secondo me ancora più significativa, già approvata dalla Regione Toscana
Per la cronaca c’è anche la creazione della nuova sottozona Terre di Vinci che, sinceramente, più che per voler esprimere un terroir con caratteristiche peculiari ed uniche mi sembra un’ottima trovata per inserire il nome “Vinci” nel vino, ottimo per aumentare le vendite.
Che poi alla fine (scusatemi ma mi permetto, con tutto il vino che ho bevuto in questi anni) mi pare il motivo unico di tutte queste modifiche.

Disposto a turarmi il naso a stento… ma (credetemi) disposto comunque, però… però… mi è impossibile sopportare la diminuzione della quantità minima di Sangiovese dal 70% al 60% !
Non riesce proprio ad andarmi giù perché pare davvero una decisione oltremodo “inginocchiata” alla (sempre solita) necessità di produrre vini dal gusto più internazionale e quindi più apprezzati nei mercati citati sopra.
Personalmente non ritengo corretto spersonalizzare ulteriormente un vino che pare dimenticare il suo legame con la tradizione per seguire a “orecchie basse e naso alto” il mercato. Che poi, sappiamo bene, i gusti spesso cambiano e, a volte, più velocemente del previsto.
E da toscano, che quotidianamente accarezza bottiglie per proporle agli appassionati italiani ed esteri, vi invito ancora una volta alla riflessione sugli effetti di tutto ciò per il nome “Chianti” all’estero, dove rasenta l’utopia anche il solo sperare che si comprenda la differenza fra denominazioni “Chianti” e “Chianti Classico“.

Credetemi sul fatto che quando propongo nella mia enoteca a dei turisti stranieri dei Chianti Classico o dei Chianti Rufina o dei Chianti Colli Fiorentini, qualche volta accade che dei turisti mi rispondano: «No, il Chianti no, fa schifo» e a me fa male sentirmelo dire perché poi la realtà non è questa e si tende purtroppo a generalizzare.
Devo perciò raccontare loro qualcosa, cercare di spiegare, fare distinguo, raccontare delle aziende che trovano sui miei scaffali (e quelli dei colleghi) e magari far pure loro assaggiare qualcosa per dimostrare che ciò che loro pensano non è vero in assoluto.
Ma la domanda che mi pongo io, oggi a maggior ragione, una volta che li vedo uscire dalla mia enoteca è spesso la stessa: «Ma questi, che Chianti trovano sugli scaffali dei supermercati nei loro Paesi?»

Adesso più che mai il rischio è che su quelle mensole di metallo si ritroveranno sempre più vini dolciastri con poco Sangiovese e con ancora meno anima.
Vogliamo assecondare sempre di più questi pensieri? Mi spiace, non ci sto.
fonte: Eur-lex, Gazzetta Ufficiale, Ansa, Provincia FI
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