il sud che si fa bere e apprezzare


La ricchezza ampelografica del meridione fra uve famose e quelle riscoperte di recente. Tante curiosità a Beviamoci sud Roma


Beviamoci Sud è diventato un esclusivo palcoscenico che promuove aziende rappresentative delle aree vitivinicole del sud Italia.


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Giunto ormai alla sua quinta edizione, si è svolto dal sei all’otto maggio all’interno del prestigioso e centralissimo Hotel Palatino, nel cuore del rione Monti a Roma.


foto: SS©

Appassionati, sommelier e operatori del settore si sono dati appuntamento intorno ai banchi d’assaggio e nei seminari dedicati, per scoprire e degustare le oltre 200 etichette provenienti da Campania, Molise, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna.


La regione ospitante è stata omaggiata con la presenza anche di un piccolo gruppo di giovani produttori laziali aderenti al progetto Vigna – Vignaioli Gajardi nel Lazio.


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Cantine piccole e grandi, standard qualitativi di alto livello, realtà sia consolidate che giovani, sono state sapientemente messe in mostra e presentate per la prima volta, unicamente agli operatori Ho.re.ca e alla stampa specializzata nella giornata di lunedì 8 maggio (questa la novità della quinta edizione).


Obiettivo dichiarato degli organizzatori, infatti, è stato quello di “dare risalto e rappresentare, dal punto di vista enologico, il Sud e i suoi vitigni autoctoni, sia quelli conosciuti che quelli sconosciuti ai più”, come dichiarano Andrea Petrini e Marco Cum.

Beviamoci Sud si pone infatti come appuntamento che dà voce e visibilità a quelle terre che da sempre significano, vino, cultura e storia (senza scomodare continuamente la Georgia).


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La parte del leone per numerosità e assortimento l’ha fatta la Campania – c’era da aspettarselo – con 36 aziende unitamente ai consorzi dei vini del Vesuvio e dei vini di Caserta. A seguire la Puglia con 12 aziende, la Calabria con 8. Sicilia pure presente con il consorzio di tutela dell’Etna DOC, assieme a piccole rappresentanze di Basilicata, Sardegna e all’immancabile Tintilia del Molise, rappresentata dal suo consorzio di tutela.


Climi variegati, tradizioni distinte, suoli ricchi con una predilezione naturale per la coltivazione di vitigni impiantati da lunga data come – per citarne giusto alcuni dei tanti – gaglioppo, magliocco, primitivo, aglianico, coda di volpe, susumaniello, carricante, falanghina.

Girando per le sale, gli assaggi fatti hanno evidenziato innanzitutto una grande eterogeneità sia negli stili che nell’imprinting dei vini (sia in purezza che in uvaggio).


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Il consorzio di tutela dei vini di Caserta ci ha guidato in una degustazione che ha avuto come filo conduttore le altitudini dei vigneti. Abbiamo cominciato con un asprinio spumante metodo charmat, affinato sui lieviti per 6 mesi, da uve allevate ad alberata. Molto fedele alle aspettative.

Dallo stesso areale il Vite Maritata, decisamente più morbido e rotondo per via della malolattica, facendolo avvicinare più ad un’interpretazione stilistica che ad un riferimento.



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Il Collecastrese Falerno del Massico di Villa Avallone a base di falanghina risulta elegante e fruttato. Salendo in alto verso il vulcano spento di Roccamonfina troviamo un aglianico vinificato senza contatto con le bucce. Coraggio ed espressività sono state regalate da Sheep dell’azienda Il Verro, coda di pecora in purezza, caldo e di buona sapidità.



Plauso al coraggio e all’interpretazione del pallagrello bianco (da pallarella, che rimanda alla sfericità armonica dell’acino) dell’azienda Terrae Tiferni.


Il consorzio dei vini del Vesuvio ha offerto dei Lacryma Christi bianchi a base di falanghina e coda di volpe sorprendentemente strutturati e rotondi. Ha colpito soprattutto la franchezza e la tipicità della Catalanesca del Monte somma.


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Una rapidissima incursione nel beneventano ci è invece servita per degustare degli spumanti non sboccati a base prevalentemente di fiano e pallagrello bianco, lievemente ossidati e davvero grintosi al sorso.

Rimanendo in provincia ma nei pressi del fiume Calore, a Solopaca, il territorio trova una singolare interpretazione nel logo dell’azienda Tenuta Sant Agostino, un logo che rivela l’aspirazione del produttore, definitosi “garagista”, che invecchia i suoi vini in anfore ricoperte internamente da cera d’api. Lunghe persistenze e profondità soprattutto per l’Atto primo affinato in anfora.


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Salendo verso il basso Lazio, verso Fondi, Itri e Sperlonga abbiamo scoperto l’abbuoto (usato al tempo dei romani per produrre il famoso Vinum Caecubum). Purtroppo l’abbuoto in purezza Filari San Raffaele viene penalizzato dall’eccessiva rusticità e dall’acidità fuori dagli schemi. Diversa la musica quando è presente in uvaggio con il serpe (vitigno che non conoscevamo affatto) in percentuale variabile dal 30 al 40%. Bel sorso che rimane teso ma con ingresso più piacevole e smarcante.



Incursioni rapide in Puglia ci hanno poi fatto apprezzare il verdeca (usato anticamente come base per vini dolci o per il vermouth) e il primitivo, autoctono pugliese altamente espressivo e originatio di Gioia del Colle ma che viene vinificato anche nel materano.


L’atmosfera si è poi “surriscaldata” quando grazie al Consorzio della Tintilia del Molise DOC ci siamo voluti immergere nell’affascinante interpretazione di questo vitigno.


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Lasciandoci guidare dalla ricerca del particolare che si incarna nell’autoctono, o più precisamente nel “dimenticato riscoperto” abbiamo poi assaggiato il Celeste Calabria rosato, a base di uve calabrese (nero d’Avola) e il Benvenuto, da uve zibibbo vinificato secco.

Degno di nota anche il Benvenuto orange, che sprigiona intriganti sentori di zagara, sempre da uve zibibbo macerate per circa 30 giorni sulle bucce a temperatura controllata. In Calabria poi abbiamo scoperto l’autoctono pecorello che risulta pulito, preciso e impeccabile (fin troppo… peccato per la spiccata deriva “sauvignoneggiante).

Prima di salutare, non potevamo rinunciare alla suggestione evocativa del Moscato di Saracena e siamo virtualmente ritornati in Calabria per chiudere in bellezza con la giusta dolcezza dalla tipica aromaticità resinosa.


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Beviamoci Sud 2023 ha quindi pienamente rispettato le nostre aspettative: indipendentemente dal valore di ogni singola etichetta ha confermato il suo essere bella vetrina del sud Italia, delle sue peculiarità e di sapori inconsueti che sanno stimolare fortemente la curiosità degli appassionati.


Salvatore Stanco – Spirito Italiano writing staff
“La competizione è inevitabilmente d’intralcio se cerchiamo di essere noi stessi”





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foto: Salvatore Stanco – riproduzione riservata

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